Strada intitolata all'alpinista montoriese Dal Bosco



navasa dal bosco targaA Quinto una via intitolata agli alpinisti veronesi Claudio dal Bosco e Milo Navasa

 

Ieri Sabato 22 settembre 2013 alla presenza delle autorità cittadine, rappresentate dall’Assessore Giorlo, del parroco di Quinto, dei rappresentanti dell’Associazione Nazionale ex deportati politici nei campi nazisti – Sezione di Verona, dei rappresentanti dei gruppi alpinisti veronesi e dei parenti e amici è stata intitolata una strada agli alpinisti veronesi Navasa e Dal Bosco a Quinto in Valpantena.


A ricordo delle imprese di Claudio e Milo e stata scoperta una targa commemorativa. Durante la cerimonia Bartolo Fracaroli ha ripercorso le gesta e le imprese dei due amici alpinisti. Di seguito le foto dell’intitolazione e il discorso integrale di Fracaroli.

 

 

 

Memoria dell’Inaugurazione a Quinto della strada dedicata a Navasa e Dal Bosco

(8928 battute)
In Slovenia quasi il 10 per cento della popolazione va in montagna, nel Veronese ci sono ben 26 associazioni alpinistico-escursionistiche, 7000 sono i soci delle sezioni e sottosezioni Cai e, conoscendole tutte, non ne troverete una dove non ci sia un vivido ricordo, ricco di aneddoti e vicende, anche memorabili, ma tutte intrise di affetto e riconoscenza (e spesso allegria), per queste due storiche figure dell’alpinismo veronese, Milo e Claudio. Sono incontri e insegnamenti nella palestra di roccia di Stallavena – cui questa strada, di ben 2,4 chilometri, adesso significativamente loro intitolata porta – episodi di vita in parete, ai corsi di roccia e di ghiaccio della scuola nazionale di alpinismo Priarolo della sezione cittadina del Cai, recuperi degli echi delle loro prime salite e racconti dei ripetitori delle stesse – ma la loro via Cristina sullo spallone del Sassolungo non l’ha più percorsa nessuno – dove emerge la statura dei fuoriclasse, unita ad uno spessore umano mica sempre verificabile in montagna, soprattutto la semplicità, la dimestichezza e il brio, con l’eleganza dello stile del Milo e la potenza “incredibile” di Claudio.
In palestra, sulle vie di roccia, sulla dolomia vergine, loro passavano senza sforzo, laddove gli altri arrancavano, “raspavano”, talvolta retrocedevano.
Erano gli anni sessanta, quelli della ripresa, o del cosiddetto miracolo economico, si sperava per un futuro migliore, anche nell’alpinismo. Con loro sono nati bravissimi scalatori tra città e provincia (e ne scorderò qualcuno). C’erano Giancarlo Biasin di Illasi, l’altro accademico del Cai, un fortissimo, sempre allenatissimo, inciampato a 33 anni in una radice al ritorno da una dura prima sul Sass Maor il 3 agosto 1964 con Samiele Scalet, e: Franco Baschera, Franco e Giorgio Chierego, Romano Taietta, Toni Pernigo, Silvano Brescianini, Sergio Faccioli, Nereo Marini, i Nani del Gasv del Nuovo Mattino, adesso i climber di Caprino che hanno scoperto le falesie del Baldo e della val d’Adige, il gruppo che fa perno su Campo Base di Beppe Pighi, le molte guide alpine scaligere di Kingrock, anche donne bravissime ma, l’impronta, l’eco del passo in più, il superamento del limite del sesto grado, con le corde di canapa e gli scarponi (non con le scarpette attuali, dalla mescola simile a quella degli pneumatici della auto di Formula l) è stata loro. Proprio a Stallavena dove, preceduti da nomi quali Gino Soldà e Cesare Maestri, hanno insegnato per anni, alla “Priarolo” (una cornacchia nel distivo, una grola), ad arrampicare ad un’intera generazione di appassionati della roccia.
Questi due, l’aristocratico Navasa (ma capace di furibonde intemerate), il sempre conciliante e allegro Dal Bosco, li ho seguiti per lavoro nelle loro imprese maggiori, scoprendo che si erano legati in grandi ripetizioni con i nomi allora più in vista, ed attivi: i De Tassis, Gabrielli, Aste, Oggioni, Miorandi, Consiglio, Pisetta, De Francesch, Stenico, Pisoni e chissà quanti altri ne scordo. Li vedevo partire e li intervistavo al ritorno, talvolta sono salito coi loro amici più cari ad aspettarli a conclusione delle loro imprese. Navasa smetteva di fumare Malboro due giorni prima, Dal Bosco, le MS, no. Facevano e rifacevano gli zaini (chiodi, staffe, cunei di faggio), litigavano sulle provviste, controllavano le corde, i sacchi da bivacco, le amache, il fornelletto. Raccomandavano il silenzio sulle mete. Il meteo allora non c’era. Ogni sera chi li seguiva col binocolo mi aggiornava, poi la conclusione, dopo giorni e giorni, dimagriti, disidratati, affamati, ma raggianti prima, sereni poi. Consci di un lavoro ben fatto chè, l’alpinismo, non è solo uno sport etico ma pure un bene dello spirito, un sollievo dell’anima, un appagamento della coscienza, un benessere psicofisico che fa vincere sul rischio con ponderata preparazione, che porta la consapevolezza di un nuovo passo per l’umanità, nella pienezza del proprio stato di grazia. Un fatto di civiltà.
Dal Bosco veniva giù da Giazza, un cimbro tosto ma semplice, un lavoratore instancabile come tappezziere, uno che in parete “riposava”, razza bruno alpina, un rude ingenuo, tenerissimo coi 4 figli e Alba Bisotti, la moglie. Abbattuto a 57 anni dalle preoccupazioni e da una tenacia di vivere incontrollata.

Navasa a 18 anni, coartato nella Todt dai tedeschi (“Sbailaiter” per i veronesi) era stato arrestato da partigiano dai nazifascisti (per una spiata)ed aveva passato mesi tra Verona e Bolzano col padre Augusto che finì (e restò) a Mauthausen, lui era su una tradotta successiva che dovette tornare indietro per i binari bombardati, e fini la guerra. Non ne parlava mai. Da altri abbiamo saputo di violenze e crudeltà vissute. Oggi è presente lo stendardo dell’associazione che rappresenta i 200 ex deportati veronesi nei campi di sterminio nazisti. Gli rimase al Milo una voglia di libertà indomabile, la repulsione per credenze e ideologie, passava mesi come un hippy sulle Dolomiti arrampicando tutti i giorni, migliorandosi ogni giorno. Sposato con Isabella Bonizzato, padre di Licia
che ora vive in Inghilterra ed ha due figli che, direbbe Camilleri, sono “Una stampa ed una figura” del Milo. Lo vidi piangere due volte, quando gli annunciai all’alba la caduta di Biasin (dopo una salva di improperi) e quando morì un ragazzo d’oro, Flavio Arrnani, da in cima della ferrata Delle Taccole sul Col Santo che aveva realizzato.
” El rampeghèva co le ònge” dirà Giordano De Tassis del Milo. L’incontro con Claudio, la raggiunta maturità tecnica, dopo le prime grandi salite – ogni tanto una solitaria (l’Olimpia, la Roda di Vàel), alcune invernali e salite di ghiaccio importanti sul Bianco e sul Rosa (non c’era la piolet traction) – con il pio Aste sul gran diedro Nord del Crozzon di Brenta e la variante Sud del Piz Serauta in Marmolada, sullo spallone sud del Campanil Basso per una via a goccia d’acqua con Marino Stenico, lo portò a risolvere i famosi “ultimi problemi delle Alpi”( che, in realtà, non saranno mai gli ultimi). Nel 1962 Navasa venne nominato accademico del Cai, Dal Bosco nel 63. In un secolo a Verona sono stati nove.
Saranno, tra le tante vie nuove (con Franco Baschera, qui presente oggi, 18 anni gestore del rifugi( Fraccaroli e, prima, del Telegrafo sul Baldo): nel luglio ’64 la parete est dei 500 metri del Pilastro Rosso di Cima Brenta, strapiombo costante di 40 metri, 150 chiodi, 18 a pressione, 8 cunei, la “via Verona” (cui Maestri aveva rinunciato, che sarà ripetuta dopo 17 anni), la Nord della Rocchetta Alta di Bosconero dal 22 al 26 giugno 65, sulle Dolomiti Zoldane, 700 metri, la”via de le Grole”. Milo e Claudio nel 1973 sullo spallone Est del Sassolungo, apriranno nel maltempo la via Cristina, 8OO metri, il loro capolavoro, per la figlia del mitico presidente del Cai Guido Chierego, progredendo fra cascate d’acqua.
Ma andranno pure in Himalaya. Claudio nel 1969 al Churen Himal (7371) in Nepal dove arriverà a ,6550 fermato dal capo spedizione Piussi. Milo lo sarà nel 76 per il Miar Peak, un settemila nel Phuparasch Group del Karakorum pachistano, con altri veronesi, il maltempo li fermerà.
Dirà Navasa a Romano Battaglia sulla rivista nazionale del Cai: “Ho smesso perché avevo fatto tutto quello che volevo fare”. E si dedicherà all’esplorazione subacquea. Da anziano, avvilito dall’Alzheimer, a 84 anni, con accanto la moglie Isabella (che aveva lasciato 25 anni prima), si spegnarà, sognando, in casa di riposo, il 12 settembre 2009. Al funerale eravamo in 30.
Claudio avrà una finale tribolato, in carrozzina, travolto dalla vita e dei tempi, però sempre capace di sorriderti dicendo: “Negli ultimi tempi ho scoperto che oltre le scalate c’è la vita della montagna,di chi la abita, i fiori, la fauna, la sua storia, quella di chi ha lavorato per noi e ancora lo fa, “fiorendo” ogni giorno.” Ci lascerà il 17 maggio 1991.
Claudio, socio Gasv (che ci invita poi ad un rinfresco), era un ottimo fotografo. Proprio con le sue immagini e con le tante buone 6×6 di Navasa, stiamo preparando (presenti Aste, Maestri e De Stefani) un convegno su di loro due, sull’alpinismo oggi e la difesa della montagne dal consumismo che le distrugge. Spinti anche da Maurizio Tommasi, il popolare istruttore “Whisky”, si farà un libretto, una mostra, una serata di proiezioni poi itinerante, un monito dal loro esempio.
C’è già chi gli ha dedicato una via di roccia a Stallavena, Beppe Zanini, e 200 metri, anche di ottavo grado, in val d’Adige, l’accademico Pastorello con Beppe Vidali e Fabio de Marchi. C’è chi vorrebbe dedicargli un bivacco, riattando magari uno dei ruderi del selvaggio versante gardesano del Baldo.. La sezione Cai di San Pietro in Cariano gli ha intitolato la propria scuola di arrampicata. Senza memoria manca il futuro. Il convegno non sarà una celebrazione ma un’analisi, tutto da riflettere
Per non perdere il valore dell’esempio. Il loro. Quello della bellezza.
Bartolo Fracaroli

 

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