La SECONDA GUERRA MONDIALE raccontata da chi l’ha vissuta: Rino Benedetti
Tratto da intervista di Mauro Rama del 23 gennaio 2000
Si ringrazia Daniela Menini e Claudia Rama per aver fornito il materiale di seguito pubblicato.
Domenica 10 gennaio 1943 parto a piedi da Moruri diretto al distretto militare per fare la visita medica. Ottenuta l’abilitazione sempre a piedi raggiungo la stazione di Porta Nuova e salgo sul treno diretto a Padova, per prendere servizio nel V° Reggimento di Artiglieria Contraerea e fare il giuramento: ho 19 anni e mezzo. Dopo oltre 2 mesi raggiungo Napoli aggregato al 113° Reggimento di Artiglieria Contraerea. La città partenopea in quel periodo è obiettivo dei bombardamenti: mi ritrovo tantissime volte avvolto da nuvole di fumo sollevate dagli scoppi. Nel luglio del 1943 gli alleati sbarcano in Sicilia e io, dopo 5 mesi a Napoli, il 31 luglio parto per l’Albania. Da Napoli in treno fino a Bari e poi sulla nave Aprilia. Il 1 agosto sbarchiamo a Durazzo e con il camion veniamo trasportati a Valona nei campi italiani già costituiti in località Dascriviza vicino al fiume Voiussa, 30 Km oltre Valona. Vengo messo a dormire alla base di in un letto a castello a tre piani, in mezzo a cimici e pidocchi.
L’Albania è già stata conquistata dagli italiani e gli albanesi cercano di riprendersela. Noi dobbiamo difendere l’area dai tanti attacchi dei partigiani albanesi fino alla fine di agosto e fino all’8 settembre il giorno dell’armistizio. A quel punto crediamo finalmente di poter tornare a casa, pensiamo che la guerra sia finita. Il colonnello, comandante del 42° Reggimento di artiglieria della divisione Parma, raduna tutti i presenti: il calvario per noi comincia adesso. Il 9 settembre, infatti, arrivano i tedeschi. Noi siamo pronti a sparare con il 117 (pezzo forte trainato da muli) ed il 7513 posto in mezzo ad un vigneto. Fortunatamente prima si instaura una trattativa con i tedeschi per evitare l’eventuale scontro a fuoco, alla fine del quale saremmo sicuramente usciti sconfitti: si trova l’accordo che prevede il nostro disarmo. I partigiani albanesi sanno che l’Italia aveva voltato le spalle alla Germania e chiedono a noi un’alleanza, ma di fronte al nostro rifiuto il 12 settembre ci attaccano ferocemente, utilizzando molte delle armi che avevano requisito. Il primo colpo in mezzo alle baracche provoca un forte scoppio e la morte di un mio compagno. Dopo un secondo colpo, durante un momento di calma, decido di spostarmi verso la scuderia con i muli distante circa 100 metri. Davanti vi sono cataste di rami di piante tagliate per costruire rifugi. Mi nascondo sotto ad una catasta per ripararmi. Nella prigione presso il campo sono detenuti alcuni partigiani albanesi. I tedeschi li prendono e li portano vicino al fiume Voiussa in una spianata, li legano e li fucilano.
Nella notte tra il 12 e il 13 subiamo vari attacchi che provocano molti morti tra i soldati italiani. Le pallottole fischiano vicino alle orecchie e la paura è tremenda. Di là del fiume gli albanesi gridano a noi di arrenderci e di unirsi a loro e intanto continuano a colpire con il mortaio. A mezzanotte inizia un attacco molto forte che riusciamo a contenere. Il giorno 14 settembre, spaventati, abbandoniamo il campo e partiamo per Valona senza radio e senza alcun collegamento in grado di fornire notizie e aggiornamenti sulla situazione: siamo a conoscenza solo dell’annuncio dell’armistizio. E’ il caos: i nostri comandanti, rimasti al loro posto, non sanno cosa fare. A Valona dormiamo all’aperto sotto gli ulivi e poi alla mattina ripartiamo, ma dopo una ventina di chilometri siamo costretti a tornare sui nostri passi perché ci sono troppi partigiani: subiamo molti attacchi e siamo disarmati. Il 15 settembre al mattino, dopo aver percorso circa cinquanta chilometri, siamo fuori pericolo, ma abbiamo l’ordine di seguire le indicazioni dei tedeschi che ci forniscono anche un po’ di cibo da mangiare. In questi frangenti circa cinquanta soldati riescono a dileguarsi e far perdere le tracce. Io dopo 6 giorni di cammino ho i piedi insanguinati e mi muovo con difficoltà. I tedeschi obbligano i soldati italiani rimasti a salire su piccoli camion per un viaggio che dura due giorni. Durante il viaggio subiamo un ulteriore attacco dai partigiani a monte Tepleni. Una raffica di mitra ci sfiora. Alcuni italiani ancora armati scendono a difendere il convoglio assieme con i tedeschi e rimangono uccisi. Arrivati vicino al lago Ocrida al confine tra Bulgaria e Grecia prendiamo il treno verso la Jugoslavia e viaggiamo tutto il giorno. Alla sera il treno si ferma, dormiamo all’aperto. Al mattino seguente veniamo caricati in 56 su un vagone bestiame di un treno diretto in Germania: il viaggio dura 16 giorni con la porta centrale del vagone perennemente aperta che ci permette di soddisfare i bisogni fisiologici scaricandoli all’esterno del treno in corsa. Attraversiamo Bulgaria, Ungheria, Romania e Germania senza passare dalla Cecoslovacchia. Passiamo da Bucarest, Budapest e da Vienna in direzione Berlino con destinazione campo di concentramento Bad Sulza C. Appena arrivati il corpo e i vestiti vengono immediatamente assaliti e infestati dai pidocchi. Da Verona sono l’unico, molti sono friulani. Dopo 8-10 giorni inizio a lavorare nei campi controllato a vista dalle guardie. Poiché non c’è da mangiare, per sopravvivere ci nutriamo con i resti di cibo gettati dai comandanti nei reticolati. Poi il 17 ottobre nuovo trasferimento. Partiamo alla mattina in treno con nella bisaccia solo 6 patate piccolissime utili per non morire di fame. All’arrivo a Muhlhausen i tedeschi ci obbligano a fare il giro a piedi e ci sputano addosso: non sopportano noi italiani. Poi ci smistano. Verso mezzogiorno arrivo a Clengrabe [Grabe Weinbergen?]. Le patate le ho già finite e ho una fame tremenda. Lungo la strada trovo una barbabietola che in parte mi sazia. Alla sera alloggiamo in circa 30 persone in un piccolo dormitorio con una guardia militare e una in borghese, con una fascia di riconoscimento sulla spalla, che ci controllano. Sarà il nostro nuovo luogo di detenzione. Siamo considerati alla stregua di schiavi: i padroni vengono a prenderci accompagnati da una guardia e siamo a loro servizio fino a sera quando ci riportano alla casa dormitorio con letti a castello a due piani dove trascorriamo oltre alle notti anche i giorni festivi.
Siamo i sostituti di un gruppo di francesi che sono stati spostati a lavorare nelle fabbriche sempre sotto gli ordini dei tedeschi.
Il mio padrone è Otto Kirstain; mi fa lavorare ma mi dà anche da mangiare: un piccione e alcune patate lesse. Gioisco come alle feste mentre all’arrivo della sera Otto mi fa capire che è il momento di rientrare. Riesco a prendere, senza farmi notare, delle patate che alla sera di nascosto vicino alla stufa mangiamo: che buone! Otto è benestante, ha molti campi e ci tratta abbastanza bene. Per noi c’è la colazione con caffè alla mattina. Alle 10 due fette di pane con strutto o marmellata. Si mangia di gusto! A mezzogiorno c’è la minestra, alle 3 il tristiek, un dolcetto e alla sera patate cotte con la scorza. Mangio con il padrone, la vecchia [madre del padrone?] e la russa. La russa proveniente da Mongolevo [?] è bruttissima ma molto buona. Mi regala un fazzoletto che conservo ancora oggi: è ricamato con il suo nome, Marfa. Lei parlava in tedesco ed io un po’ alla volta imparo qualche parola.
Il primo anno va molto molto bene, siamo fortunati perché siamo in numero esiguo, circa trenta persone, abbiamo la stufa e c’è molto caldo. Il lavoro consiste nel gestire i cavalli, togliere il letame e governare 20 vacche. Al pomeriggio vengono a prelevarci nei campi verso le quattro ci fanno cenare e poi alle 6 ci costringono a rientrare nel dormitorio. Non abbiamo vestiti di ricambio e i tedeschi non forniscono niente. Si riesce a malapena a lavarsi e ripulire i vestiti. La mia famiglia tenta più volte di spedirmi sacchi di cose da mangiare e da vestire, ma senza successo.
Giunge l’inverno 1944 e passa Natale e capodanno senza che ce ne accorgiamo. Non abbiamo notizie dall’Italia e la posta è sottoposta a censura. Solo ogni tanto trapela qualche informazione: pare che le cose nel nostro paese vadano molto male probabilmente stiamo meglio noi in Germania. Gli alleati spostano il fronte sempre più a nord e da noi sulle alture della Lessinia ci sono i partigiani. Scrivo a casa e questa volta ricevo da Verona un pacco inviato da mia mamma che contiene una camicia. Naturalmente non abbiamo nessuna intenzione di fuggire perché in queste condizioni almeno abbiamo un minimo di assistenza e perché non sappiamo quale direzione prendere per tornare verso casa. Ai primi di giugno del 1944 prendo la malaria con febbre alta. Arrivo a pesare 40 kg. Ad un certo punto decidono di ricoverarmi in ospedale con un viaggio in treno che dura un giorno e curarmi con il chinino. Sono fortunato, all’ospedale lavora un medico tedesco che in precedenza è stato in servizio nel nostro paese. Tramite lui Otto richiede che io torni a lavorare nella sua tenuta. Per me è la salvezza. Il giorno 6 giugno gli alleati sbarcano in Normandia. I bombardamenti si intensificano. Dal nostro casolare dell’ospedale, sulla cima di una collina, vediamo la linea ferroviaria sotto di noi bombardata in continuazione dagli alleati per interrompere le linee dei rifornimenti di armi e viveri in Francia. Alla fine di giugno io e un altro malato dopo 20 giorni di cura possiamo lasciare l’ospedale costituito da quattro baracche con i reticolati. Dopo la visita posso tornare al precedente lavoro da Otto. Per tornare in forma, con attenzione e di nascosto, riesco a nutrirmi con due uova al giorno raccolte direttamente nel pollaio. Ho paura che, in caso di scarso rendimento lavorativo, mi riportino nei campi di concentramento. In giugno il lavoro nei campi consiste nel taglio del frumento. Io sopra ad un carro accomodo le “faie” che il padrone, un gran lavoratore, mi passa. Passa luglio e a metà agosto gli alleati sbarcano nella Francia meridionale e si avvicinano alla Germania.
A settembre noi assumiamo lo status di civili. Ora abbiamo molte più libertà. Dormiamo a casa dal padrone. Siamo nominati “Internati Militari Italiani” (in tedesco Italienische Militär-Internierte – IMI). Il padrone ci lascia dormire sul granaio purtroppo con un freddo incredibile. Era meglio dormire nelle vecchie baracche dove almeno avevamo la stufa a carbone. L’inverno tra il ‘44 e il ‘45 è veramente freddo. Otto mi agevola predisponendo per me un piccolo sgabuzzino senza porta sul granaio. La finestra non ha infissi e quindi quando nevica e soffia il vento mi trovo la neve nel letto. Tappo la finestra con una vecchia coperta per limitare l’ingresso del freddo. La sera, andiamo a raccogliere mele ed io le nascondo sotto il letto. Purtroppo un gruppo di studenti ingaggiati per raccogliere le patate riescono a trovare le mele e me le rubano. E’ un brutto inverno, che cerco di superare con l’aiuto di un sacco di fieno che mi sono preparato per scaldarmi un po’. Ho spesso forti mal di denti. Al padrone non interessano i miei acciacchi: è importante solo il lavoro che fornisco e basta. Rimpiango i tempi passati quando potevo tornare a dormire nella baracca con la stufa e incontravo i miei commilitoni italiani. Mi ricordo che nel periodo freddo, quando era d’obbligo rimanere nella baracca, alla sera ci chiudevano a chiave ed eravamo costretti ad urinare in un bidone nell’angolo che alla mattina a turno andavamo a svuotare. Alla notte sotto di noi dormiva un tedesco armato di fucile, incaricato di svegliarci alla mattina: “italien aufstehen, italien aufstehen”. Là si poteva bere birra (anche 40 litri in una sera per trenta persone). Da civili, invece non c’è più presenza di militari e ognuno dorme dal proprio padrone. Ai piedi ho un paio di “sgalmare” consumate e mi riduco a camminare a volte scalzo d’inverno. A quel punto il padrone mi regala un paio di stivaletti tipo militare che resistono fino al mio rientro in Italia. Niente calze, niente mutande. Curo con attenzione la pulizia in modo da tenere lontano i pidocchi. A Napoli avevo preso i pidocchi perché i vestiti che portavo a lavare mi tornavano già infestati. Già a Napoli ero stato disinfestato ma poi li ho ripresi in Albania. Sicuramente li ho avuti con me per almeno due mesi. In Germania la disinfestazione completa con vestiti bruciati evita questa piaga. Resisto e supero l’inverno, arriva la primavera del 45. In marzo iniziamo a lavorare la terra per la semina delle patate. Sentiamo lontano un rumore basso di sottofondo. E’ il fronte che avanza con i mezzi corazzati. “Was is das?” chiedo al padrone ma lui non risponde. La vicina città di Erfurt è distrutta dai bombardamenti. Noi sentivamo gli scoppi. La Germania è colpita massicciamente dalla RAF inglese passata al contrattacco. Hitler sposta l’esercito verso la Russia. Quanti bombardamenti… Vi sono le incursioni inglesi (di giorno) e americane (di notte). Gli aerei passano in flotte anche di 50 aerei. Un giorno, mentre osservo una flotta, vedo un aereo che scarica un grosso contenitore ed io con cura di proteggermi mi butto per terra e osservo il bidone arrivare a pochi metri da me: è un serbatoio vuoto, lasciato cadere. Ormai siamo abbastanza esperti da riconoscere se ciò che arriva dal cielo sono bombe o altro. Porto a casa il serbatoio americano di alluminio. Siamo preoccupati e dubbiosi: che ne sarà di me, di noi? Il fronte avanza. Il 9 aprile ‘45 una sirena lancia l’allarme: si salvi chi può! Scappo, raggiungo gli altri tre italiani e ci nascondiamo nella cantina. Da una bocchetta usata per scaricare le patate vediamo all’esterno i tedeschi che affrontano gli alleati con i pugni anticarro “Panzerfaust”. Sono molto coraggiosi, non si arrendono; il combattimento dura due ore, dalle 15 alle 17 e alla fine rimangono uccisi sette o otto militari. Vicino alle case c’è una fila di carri armati che colpisce, uccidendoli, tutti i soldati tedeschi che avanzano. Alla sera vediamo gli americani arrivare e decidiamo di uscire. Uno di loro mi blocca sull’uscio e mi consiglia di togliermi la mantella militare per non essere scambiato per tedesco. Ascolto il suo consiglio e mi libero della mantella. Poco dopo passa un americano che conosce bene l’italiano e si avvicina per chiederci se vi sono tedeschi. Avevo visto un tedesco nascondersi ma non lo dico, anche se serve a poco, perché il mattino dopo il soldato esce dal nascondiglio per tentare la fuga e in un attimo è individuato ed ucciso. Poteva rimanere nascosto, cercare vestiti civili e passare inosservato. La casa dove alloggiamo è requisita dagli americani per farne un posto di comando e siamo quindi costretti a sloggiare e cercare un altro luogo per dormire. Per qualche giorno troviamo dei rifugi di emergenza, una sera da una parte, una sera dall’altra dove capita. Su un costone dietro una casa sono piazzati i cannoni che in continuazione vengono azionati anche ogni mezz’ora con l’emissione di forti scoppi. Alla sera vado da solo a Grossgraben [?] dai parenti di Otto. Dormo in qualche modo sotto la tavola. Poi mi unisco ad altri italiani e da quel momento le cose cambiavano perché ci sentiamo ancora più liberi. Liberi di fare ciò che vogliamo (o quasi). Questa situazione dure un paio di giorni. Siamo curiosi di sapere come si evolve la situazione e capire se e come gli americani si appropriano delle proprietà dei tedeschi. A Grossgraben gli americani hanno 800 carri armati ed i tedeschi arrivano con un aereo per bombardarli. Ma l’aereo viene immediatamente individuato e colpito da una quantità enorme di colpi e fatto cadere. Noi non sappiamo cosa fare, dove andare e continuiamo ad osservare curiosi in attesa che qualcuno ci fornisca indicazioni. Dopo due giorni ci spostiamo nella cittadina di Mullhausen, per entrare nella caserma dei tedeschi a prendere vestiti. È sguarnita e deserta così decidiamo di rimanere all’interno per 5-6 giorni in una grande stanza in attesa che il fronte si calmi. Dopo molte notti insonni dormiamo due giorni di fila senza mangiare su brande che ci siamo procurati e che erano usate per i prigionieri italiani.
Gli americani iniziano a mettere ordine e a catturare prigionieri. Nelle strade viene abbandonato molto materiale militare: fucili, bombe a mano e molto altro ancora. Il giorno di Pasqua nei primi giorni di aprile si scatena un bombardamento dove rimangono uccisi anche due italiani.
La caserma è molto grande ma lentamente si popola: ci sono anche russi e americani che finalmente ci offrono qualcosa da mangiare. Tra la caserma e la casa di Otto ci sono circa 2 Km. Qualche giorno andiamo ancora ad aiutare il padrone in cambio di uova per mangiare. Qualche altro lavoriamo per gli americani in cambio di cibo.
Rimaniamo nella caserma fino al mese di giugno aspettando notizie. Il giorno 8 si presenta il mio ex padrone e mi dice: “domani è il giorno del tuo compleanno” e mi invita a fare una piccola festa in mio onore, come era già accaduto l’anno precedente. C’è molta familiarità tra noi dopo tutto questo tempo. La signora russa mi regala il fazzoletto che tengo ancora. Alla mattina del 9 giugno arrivano gli americani mi caricano su un camion, mi portano ad Erfurth. Poi continuo il viaggio in treno ma ben presto vengo a sapere che non sono destinato a tornare subito a casa, perché prima hanno la precedenza i civili. Incontro alcuni civili veronesi emigrati dall’Italia per lavoro. Due coppie ed un uomo singolo. Una coppia, di Terrazzo, mi dice: “sali sul camion!”. Io sono considerato civile per i tedeschi ma militare per gli americani che hanno le mie generalità. La signora mora ha un zaino pesantissimo circa 70 kg. Poiché il mio pesa solo 40 kg troviamo un accordo: io porto il suo e lei porta il mio. Così anche se durante l’appello non viene chiamato il mio nome io salgo comunque sul camion e poi sul vagone merci di un treno per un viaggio che dura quattro giorni. Rischio ma ho fortuna. E’ un treno pieno di gioia con bandiere che sventolano da tutte le parti. Alla sera del 12 giugno giungiamo in una fredda Bolzano ricoperta di neve e siamo costretti a fermarci perché la linea è interrotta. Nel giro di due ore alcuni camion italiani vengono a prelevarci. Finalmente arriviamo a Verona e attraversiamo Ponte della Vittoria ricostruito in ferro con mezzi di fortuna dagli americani. Mentre altre persone proseguono il viaggio verso Terrazzo io scendo e proseguo a piedi in direzione Montorio. Arrivato in Borgo Venezia decido di prendere il tram per proseguire ma ricordo di essere senza soldi per il biglietto. All’improvviso vengo circondato da un gruppo di donne che mi offrono soldi per il biglietto e mi chiedono se oltre a me sono tornati altri soldati. Purtroppo per loro non ho buone notizie perché sono l’unico soldato ad essere per il momento tornato. Arrivo a Montorio alle ore 23 del 13 giugno. Da Montorio mi avvio verso Moruri attraverso le “rie vecie” sono stanchissimo. Arrivato nel “Vaio del Vento” prima di Castagnè alla fontanina mi fermo e mi addormento. Dopo poco arriva una persona in bicicletta e vedendomi a terra prende spavento. Mi sveglio e alle ore 01.00 circa della notte riparto piano piano fino ai “Scheransi” dove mi riposo un po’ prima di ripartire. Dopo un’ultima sosta davanti alla chiesa di Moruri, finalmente rivedo la strada di casa: sono le due o le tre di notte. Mio zio Ferruccio sente dei rumori e subito sento la sua voce che dice: “sito ti Rino?” ed io anche se ormai esausto rispondo prontamente: “sì, son mi”. La nonna Regina esce di corsa da casa. Tutti fanno festa: c’è grande gioia ed emozione. Era da circa sei mesi che non avevano più mie notizie. Si avvisano i parenti: lo zio Giulio, lo zio Carlo, quelli di Ca’ dell’Ora e quelli dei “Scheransi”. Poi fanno partire la musica con il disco “Mamma ritorno da te” che mi emoziona tantissimo.
Alla mattina arriva Ferruccio dei Riccardi con cui ero a Napoli: suo fratello Cesare è rimasto ucciso in Germania. Anche uno dei “bieti” detto il “frate” è rimasto ucciso. Io sono molto fortunato ad essere tornato vivo
Dopo 30 mesi eccomi finalmente a casa dove ricomincio a lavorare con la famiglia nei campi.
Il libro sulla seconda guerra mondiale a Montorio:
26 aprile 1945. Una lunga scia di sangue tra Montorio, Ferrazze e San Martino Buon Albergo