Vasco Meneghello. Fuga dalle casermette


8 Settembre 1943. Fuga dalle Casermette (Caserma Duca) di Montorio Veronese

Pubblichiamo di seguito il racconto di Vasco Meneghello, inviato dal nipote Stefano Tieni. Narra la disperata fuga dalle Casermette di Montorio (Caserma “Duca”) in seguito all’armistizio del giorno 8 settembre 1943. Ringraziamo Stefano per averlo conservato e inviato e Roberto Zamboni e il portale www.dimenticatidistato.com per la collaborazione.

E’ il terzo resoconto di fuga attraverso l’impianto fognario della Caserma Duca che è stato raccolto attraverso deposizioni disponibili nelle pagine di internet:

Monai Faustino. Fuga dalle Casermette (Il ritorno di Faustino dopo 67 anni a Montorio)

Angelo Vianello. 8 settembre 1943: fuga nel tunnel

8 Settembre 1943. Fuga dalle Casermette (Caserma Duca) di Montorio Veronese

Sig. Vasco Meneghello (1920-2011) di IsolaRizza (Vr)

Era l’8 settembre 1943 quando giunse la notizia dell’armistizio dell’Italia e del passaggio del potere al Generale Badoglio.
Io ero militare d’istanza alle “Casermette” di Montorio,in provincia di Verona ed in quel giorno regnava il caos.
Essendo presenti nella caserma vari militari tedeschi, fino al giorno prima nostri alleati, ci trovavamo ora nella situazione di avere il nuovo nemico “in casa”.
Tutto era cambiato in un attimo ed il nostro destino, se possibile, si presentava ancora più incerto di prima.
La notte mi addormentai sulla mia branda, con il mio fucile appoggiato su un lato del letto.
Fui però ben presto risvegliato da un militare tedesco, che mi puntava il proprio fucile ed una pila in faccia, mentre urlava nella sua lingua, a me sconosciuta, qualcosa che non capivo. Ma era chiaro che stava chiedendo il mio fucile. Ci stavano disarmando.
Io senza esitare gli diedi l’arma e lui se ne andò. La situazione era drammatica. Non sapevamo cosa stesse succedendo esattamente, ma le voci che giravano ed i camion carichi di miei compagni che partivano, rendevano chiaro a tutti che ci stavano deportando.
Ad un certo punto qualcuno iniziò a dire che alcuni di noi avevano aperto un tombino fognario che si trovava all’interno della caserma e che, calandosi da li’, stavano sfuggendo ai tedeschi.
L’idea di scendere in quel buco, la claustrofobia e la prospettiva di trovarmi nelle fognature, senza sapere poi cosa poteva succedere, mi faceva molta paura.
Mi affidai quindi al mio rosario. Lo presi in mano e iniziai a pregare decidendo di scendere nel tombino.
Una volta sotto mi trovai a dover camminare accucciato nello sporco e nelle feci. Alcuni di noi avevano piccole pile e vedevo in lontananza un po’ di luce. Il cammino era reso ancora più difficoltoso dal fatto che alcuni ragazzi avevano portato lo zaino, ma una volta sotto, capendone l’inutilità e per il peso dello stesso, lo avevano abbandonato a terra, costringendo chi li seguiva a dover anche scavalcare questi ostacoli, in una situazione già di per sé molto difficile e faticosa.
Iniziammo a vedere degli sbocchi verso l’esterno ed i ragazzi cominciarono a prendere queste uscite a caso, seguendo il loro istinto ed il loro destino, attaccandosi alla speranza, una volta fuori, di aver scelto la giusta via per la fuga.
La mia uscita mi porto’ verso un fossato che dava su un fabbricato. Iniziai a chiedere aiuto e ad una finestra, non molto alta rispetto al fossato stesso in cui stavo, si affacciò una suora. Era un piccolo convento.

In qualche modo riuscii a risalire e ad entrare. Spiegando ciò che stava succedendo alle suore decidemmo, per prima cosa, di scavare una buca nel giardino del convento e di sotterrare tutti gli abiti militari, nel caso i tedeschi avessero fatto irruzione.
Io dovevo in qualche modo andarmene, però mi trovavo senza vestiti. Le suore quindi mi cucirono dei pantaloni prendendo il tessuto da alcune tende rosse. Poi chiamarono il prete del paese che ci fece avere delle vecchie scarpe ed una giacca. Io pensai che se i tedeschi mi avessero trovato per strada vestito in quel modo appariscente e ridicolo, vista la mia giovane età, avrebbero capito subito che ero un italiano “di leva” in fuga.
Decidemmo quindi di esagerare e con dei giornali infilati nel retro della giacca mi crearono una finta gobba.
Pensai “se mi vedranno così”, con dei pantaloni rossi e la gobba, forse penseranno che sono un matto o un ritardato o qualcosa del genere. Li farò ridere e mi lasceranno stare”
Mi diedero una bicicletta e potei andarmene iniziando il lungo percorso che mi doveva portare fino a casa ad Isola Rizza, nella “bassa” , al lato opposto della provincia veronese.
Nel frattempo mio padre, a cui era giunta la notizia della situazione nella nostra caserma, era giunto lui stesso fino a Montorio in bicicletta per cercarmi e dalle inferiate dei cancelli, chiedeva di me ai compagni rimasti.
Forse qualcuno gli disse che ero scappato e tornò verso casa.
Nessun tedesco mi fermo’ e potei tornare al mio paese, ritrovando la mia famiglia, la mia casa ed anche mio padre, che tanto si era preoccupato per me.

Vasco Meneghello

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