Gli autori si presentano
Il numero di quest’anno è particolarmente ricco e restituisce alla comunità uno spaccato trasversale del passato e del presente, che abbraccia più generazioni e spazia lungo i confini dell’arte, della storia, dell’ambiente e della tradizione. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il prezioso lavoro di persone, che con il loro contributo hanno voluto condividere conoscenza ed esperienza.
Per questo pensiamo sia importante dare un volto a I quaderni, perché dietro ad ogni parola c’è una voce, una mente e un’anima che racconta. Conoscere chi abbiamo di fronte, aiuta ad aprirsi all’ascolto e a condividere esperienze.
Giorgio Chelidonio
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Che strade hai percorso nella tua vita Giorgio?
Per ognuno la vita è un intreccio di strade e di incontri che uniscono e/o dividono, che aprono orizzonti cognitivi (affettivi, culturali e magari anche professionali) e scenari socio-paesaggistici.
Oltre mezzo secolo fa (mi impressiona dirlo) l’incontro con una ragazzina e quindi con suo padre, un insegnante elementare appassionato di preistoria, è stato il bivio che mi ha portato a scoprire l’interesse per la preistoria, che tuttora coltivo quotidianamente con letture specialistiche, studi, collaborazioni museali (e universitarie) e ricerche. Proprio quest’ultime mi sanno tuttora appassionare, perché dietro ad ogni rinvenimento, talvolta anche al più “banale”, si possono aprire inattese “tessere del mosaico ambientale”. Nel caso dei Monti Lessini queste tracce permettono di spaziare per quasi mezzo milione di anni, cioè per la dimensione crono-evolutiva europea che ha portato dagli ultimi Homo heidelbergensis ai primi Neanderthal (da quasi 300.000 a 40.000 anni fa circa), fino ai primi Homo sapiens. Questi ultimi, arrivarono attraversando da Est (o da Sud-Est) la “grande pianura padana”, quella in cui, durante l’ultima fase glaciale (freddo-arida), l’Adige confluiva in un “grande Po”, che poi sfociava nel paleo-Adriatico circa all’altezza della città di Ancona. Visualizzare questa “finestra paleoclimatica-paesaggistica” permette di comprendere come i Lessini, con la loro ricchezza di affioramenti di selce, fossero allora un importante snodo Est-Ovest (ma anche Sud-Nord, seguendo la valle dell’Adige) per le comunità di cacciatori paleolitici che si erano diffuse dalla penisola italica ai Balcani (e viceversa), fino a tutti i territori europei, dalla Crimea alla Bretagna. Proprio l’incontro con quella selce è stato il mio secondo bivio: dopo un breve biennio di semplici raccolte di superficie, l’osservazione e l’analisi di forme dei manufatti litici non mi bastò più: volevo capire com’erano stati fatti e per farlo iniziai a riprodurli usando le stesse tecniche preistoriche che erano state applicate per lavorare i noduli silicei. Iniziai proprio con campioni di materiale che si potevano raccogliere sulle due dorsali:
quella del castello di Montorio, dove la selce affiora abbondante a Monte Gazzo (sopra Romagnano); quella più ad Est, dove, fra Pian di Castagnè e San Rocco di Piegara (e sui relativi versanti della Val Squaranto) emergono diversi tipi di rocce silicee. Proprio nella conca di Cà Palui, sopra Trezzolano, “incontrai” quasi subito il sito paleolitico più ricco e più motivante: non solo racchiudeva migliaia di manufatti ma, soprattutto, si rivelava come un raro sito di “officina paleolitica”, una dimensione estrattiva/produttiva a cui accedevano già gli ultimi Homo heidebergensis, quelli che avevano colonizzato il centro-nord europeo già da quasi 800.000 anni fa. Con questo intenso e continuo confronto fra manufatti osservati e la loro riproduzione stavo scoprendo, dai primi anni ’70, l’archeologia sperimentale, disciplina già universitaria in Francia ma del tutto sconosciuta, allora, in Italia. Il mio “approdo” al Museo di Storia Naturale completò (con un decennio di “collaboratore volontario”) quell’esperienza, che nei successivi anni ’80 tradussi in attività di ricerca e didattiche: prima nelle scuole veronesi, poi presso altri musei (Trento, Bolzano etc.), università (Ferrara) e istituzioni paletnologiche (l’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, la Soprintendenza Archeologica del Veneto). Dalla fine degli anni ’80 sviluppai contatti con altri ricercatori europei (Univ. Bordeaux, il C.E.P.A.M. di Valbonne (1) e alla fine di quel decennio con la Wake Forest University (Nord Carolina/USA) (2). Quest’ultimo, in occasione di uno studio internazionale sulle pietre focaie storiche, che avevo avviato nel 1987-1988 con una mostra itinerante promossa dalla Cassa di Risparmio di Verona Vicenza e Belluno. Tornando ad evocare il reticolo di “piste” socio-culturali che ho percorso in parallelo a questa mia “passione” principale, mi basta elencare le “radici beat” (coltivate – 1965/1968 – come batterista), il “mestiere del bancario” sopportato dal 1967 al 2003 e la “stagione” del rappresentate sindacale (1974-1981). Ma dalla seconda metà degli anni ‘80 ho percorso anche la “pista” dell’Educazione Ambientale, come socio di Italia Nostra, scoprendo e divulgando la bellezza della complessità paesaggistica, tema che ho espresso anche come coautore di un importante volume: “L’ambiente e segni della memoria” (3), pubblicato nel 2005 da Carocci Editore (Roma) e, miracolosamente, ancora “in catalogo”.
Perché ti piace scrivere o perché senti l’esigenza di farlo?
Immerso, come tuttora mi sento, in questa rete di “passioni culturali” non è difficile dedurre che “ricercare, studiare, divulgare” si materializzi nel “bisogno di scrivere”, anche perché mi rendo ben conto quanto il tema della preistoria sia troppo spesso banalizzato, quando non “snobbato” negli stessi programmi scolastici.
Che cosa racconti in questa edizione de I Quaderni?
Quanto al mio contributo a questo secondo numero dei “Quaderni della Dorsale”, torno a ribadire l’importanza culturale, tuttora ignorata dalla progettualità amministrativa locale, dei siti paleolitici conservati sia nella conca di Cà Palui, sia nei sottostanti versanti di Trezzolano.
Una frase che ti rappresenta?
Infine, una frase (auto-ironica) rappresentativa delle “piste parallele” che ho elencato: “Mi impiego ma non mi spezzo”.
Mi ha molto aiutato nel mio arrancare impiegatizio.